É quella cosa che mi prende sempre, da che ne ho memoria, verso la fine di agosto, la fine dell’estate, e non posso farci niente.
Non provo nemmeno a combatterla perché non è una cosa brutta: non è tristezza, più malinconia, e nostalgia, ma di cosa bene non lo so, come un languore diffuso, uno struggimento.
É nostalgia di posti dove sono stata e dove non tornerò mai più, e di quelli che ho solamente sognato e che probabilmente non vedrò mai.
É nostalgia di tutte le vite che non ho vissuto perché ad un certo punto, giuste o sbagliate che siano, uno deve fare delle scelte, ma resta sempre la curiosità ed il bisogno di chiedersi cosa ci sarebbe stato dietro quelle porte.
É l’odore delle case dove ho abitato, i ricordi di quando ero piccola, i volti di persone con le quali ho fatto pezzi di strada, fotografie sbiadite di vacanze lontane nello spazio e nel tempo, emozioni dimenticate, ma anche amarezza e delusioni, e tutte le domande per le quali non avrò mai una risposta.
Succede sempre all’improvviso, in una giornata di sole, di luce dorata e cielo terso e sereno come quella di domenica.
Non potrebbe attecchire in alcun modo oggi, ad esempio, ne mancano le condizioni.
Conoscendomi potrebbe facilmente ripresentarsi a settembre, è il mese perfetto per la saudade.
Insomma, camminavo in quell’unico grande polmone verde di Vorkuta fatto di colline e belle case con giardini fioriti e alberi rigogliosi, ville e casali dove non mi potrei nemmeno sognare di abitare, e di campagna ordinata e curata, e mi sentivo così, contenta di essere viva, contenta di esserci, e di essere lì in quel momento.
Uno di quei rari momenti in cui tutto mi sembra perfetto e vorrei fermare l’attimo, consapevole di quanto tutto sia caduce, impermanente, e di quanto il tempo e gli anni passino sempre più velocemente.
Dunque la botta di saudade mi ha presa anche quest’anno, anche se l’estate qui è come se non ci fosse mai stata, come se non fosse proprio arrivata e oramai, tranne qualche fugace colpo di coda, non si torna più indietro. Questo sì, mi mette tristezza.
L’inverno è una stagione per persone solide e serie che hanno tutto sotto controllo, e soprattutto che sanno dove stanno andando, dopo averlo identificato.
Io riesco solo a vivere alla giornata, e detesto l’inverno, perlomeno l’inverno a Vorkuta.
Le giornate si stanno già visibilmente accorciando e il sole, quelle poche volte che fa capolino, è meno accecante e invadente, più dolce e meno aggressivo.
I più sono ritornati ai loro posti di combattimento, i pochi negozi che erano chiusi hanno riaperto i battenti, compaioni piumini e stivali, i supermercati sono invasi da articoli scolastici e di cancelleria varia, spuntano ovunque depliants e cartelloni pubblicitari che invitano e incitano all’impegno, palestre, corsi di ballo, di lingue, di teatro, cineforum.
Una miriade di attività destinate ad occupare il corpo e la mente, insieme o sparatamente, nel lungo e desolante inverno lombardoveneto.
Non voglio imbarcarmi in ambiziosi progetti di lungo corso probabilmente destinati al fallimento, visto lo stato liquido nel quale mi ritrovo, ma sento comunque il bisogno di cominciare qualcosa di nuovo, di stimolante, o magari di riprendere o approfondire hobbies del passato.
Insomma vorrei impormi un minimo di obbiettivi, realistici però, darmi un po’ di struttura.
Anche perchè quattro giorni di Multipaesana e sono già poltiglia.
Ho visto un bel film italiano in questo fine settimana, La mafia uccide sempre d’estate, me l’ero persa quest’inverno, e già allora avrei voluto vederlo.
Ho voglia, ad esempio, di tornare a frequentare cinema e vedere film su film come negli anni passati.
E dovrei occuparmi più spesso e meglio del mio corpo, che anche senza la bilancia vestiti stretti e rotolini cicciosi denunciano una certa noncuranza e sottovalutazione, o rimozione, del problema.
Non posso più vivere di rendita.