Archivi del mese: marzo 2015

Capelli

La cosa peggiore dell’affrontare un compleanno importante e che mi sta già mettendo in crisi da qualche giorno, e non l’avrei immaginato, é farlo con un taglio di capelli completamente sbagliato, niente affatto riuscito, che non mi dona, e che è anche scomodo perché ho sempre i capelli in bocca e negli occhi. E mi è pure costato un sacco di soldi, per metterci il carico da quaranta. 

Quando ho visto che tirava fuori quelle macchinette maledette invece di sane forbici affilate avrei dovuto fermarla, che già non mi diceva bene. Così sembrano tagliati con l’accetta, che potevo fare da sola.

Avrei tanto voluto essere non dico splendida, che avrei dovuto cominciare a lavorarci da Natale e anche investire dei bei dobloni per un total make over,  ma presentabile, e non con le forcine e le pinze come quando passo lo straccio per terra.

Per fortuna crescono come il bambù.

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Più che il capello bianco 

Prima ancora che il numero dei compleanni a ricordarmi che divento vecchia ci pensano ogni giorno telefonini, Ipad, navigatori, computer, blog, applicazioni e diavolerie (si fa per dire) varie. 

Per carità, cose delle quali non vorrei fare a meno, non dico che non potrei farne a meno: tutti aggeggi che non possono essere lasciati a se stessi e richiedono costanti cure e aggiornamenti, sincronizzazioni che, personalmente, non mi dispiacerebbe se se li facessero da soli, per conto loro. E se poi tutto tornasse facile come prima.

E quando quasi ogni aggiornamento mi manda in crisi perché mi sono abituata a fare una cosa in un certo modo, a trovarla lí, quasi automaticamente, o a visualizzarla così piuttosto che cosá mi assale un parziale sconforto. La stessa cosa oramai mi succede anche quando mi devo addentrare nei menù di un qualsiasi semplice oggetto anche solo lontanamente vagamente tecnologico, che ne so, un contapassi. 

E mi domando, ma questa gente, soprattutto sviluppatori e simili, non potrebbe star ferma, ma proprio immobile, almeno per un mese o due, giusto il tempo per lasciare tirare il fiato a tutti quelli che non sono nativi digitali? Perché siamo un bel pó.

Allora capisco che sono io quella che sta uscendo dal giro.

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La biblioteca

Modalitá anni sedici. Ho scoperto da poco che andare a studiare in biblioteca é molto produttivo, come in anni oramai lontani hanno sempre sostenuto molti amici ed amiche contro la (mia) teoria dello svacco in posizione orizzontale che ho sempre preferibilmente praticato. 

Così adesso in biblioteca ci vado ogni sabato mattina, con la mia bella borsa piena di cartacce, e grammatiche, e manuali: mi disciplina, mi da struttura, ma è una disciplina alla quale trovo piacevole sottostare. Più produttivo che studiare a casa, luogo pieno di distrazioni e tentazioni, come letto, divano, sacchetto dei biscotti del Mulino Bianco, altre letture, film, Internet, musica, penniche varie, un panino. 

Non soffro, stranamente e sino ad ora, di fobie sociali (solo una forma di misantropia protettiva), però un paio di volte mi sono sentita scrutata ed osservata da dei ragazzetti. E ragazzette. Siccome sono stracerta che nessuno di loro mi vedesse come un possibile oggetto del desiderio  credo si domandassero incuriositi cosa ci facesse la madre o zia di uno di loro con il vocabolario e la lingua di fuori a sottolineare, correggere, e ripetere a bassa voce pagine fitte di appunti e cancellature. 

O forse era solo una mia impressione, sta di fatto che a volte me lo chiedo anch’io cosa diavolo stia facendo, e che visto dall’esterno sembra folle. Ma a me piace farlo, più di un sacco di altre cose che gli altri trovano interessante o divertente. 

Che carini loro, i ragazzetti, collaudati movimenti felpati per fare il minimo rumore, praticamente muti, solo qualche bisbiglio, gli zaini e le borse piene di libri, parecchi con note book o IPAD, tutti con jeans e piumino.

Ho sempre sostenuto che una delle poche cose meritevoli di questa cittadina sia la biblioteca: oggettivamente bella sotto il profilo urbanistico ed architettonico, una villa padronale con un bel parco, qualche albero secolare, una struttura elegante già di suo poi intelligentemente convertita al nuovo uso, in posizione comoda e centrale, non impossibile trovare un parcheggio nelle vicinanze.

Un luogo che ho frequentato spesso, ma solo per ritirare libri o riportarceli, senza soffermarmi un secondo più del dovuto. Poi un sabato mattina dovendo riconsegnare e ritirare un tomo mi sono detta che avrei potuto fermarmi a studiare per qualche ora, e mi sono organizzata di conseguenza. Poi ho approfittato dell’occasione per fare un giro nelle sale, e mi è piaciuto tutto quello che ho visto.

Non sembra nemmeno di essere in Italia. Il luogo é curato, pulito, confortevole, gli addetti puntuali, gentili, disponibili e preparati, il comportamento quasi ineccepibile da parte di quasi tutti i visitatori di ogni età. Se ne ricava una sensazione più unica che rara di efficienza e di servizi offerti al cittadino, di cose che funzionano.

Ho potuto compilare un modulo per la richiesta di acquisto di due libri, anche se dubito verrà presa realmente in considerazione, e un questionario circa il gradimento del centro storico da parte della popolazione con invito a formulare eventuali proposte, e valutare operato di sindaco e giunta per le politiche e iniziative intraprese al riguardo. Niente di trascendentale, dovrebbe essere questa la normalità, ma non è male, qualche volta, sentirsi parte di una comunità che vuole migliorare, che chiede il mio parere, che ascolta o valuta le mie proposte.

Se avessi lo stesso ricordo dell’unico ospedale in cui sia mai stata ricoverata, e solo per una banale intervento, non avrei tutta la paura, il terrore, che ho delle malattie e di queste strutture, e di medici e infermieri.

Il secondo vantaggio di andare studiare in biblioteca é che andandoci a piedi faccio finalmente quattro passi, e che poi mi fermo a fare qualche compera da gente che sa cosa vende, servita e riverita e non trattata come un numero, nei pochi negozi di quartiere rimasti. Certi negozianti li conosco da quando ero piccola e li ho visti invecchiare, adesso sono molto anziani o non ci sono più, e ritrovo magari i figli, su per giù della mia stessa età, con qualche o molti capelli bianchi.

Il terzo motivo per cui a quest’abitudine del sabato mattina ci sto prendendo gusto é che vedere tutta quella gente di ogni età che maneggia e sfoglia libri, e non solo i ragazzetti che devono studiare per gli esami o per la maturità, e quindi per fini utilitaristici, che è una cosa assai diversa dal piacere e dalla curiosità di leggere, di esercitare e stimolare il pensiero, mi fa stare bene, anzi, mi fa sentire meglio. Mi da una speranza per il futuro, assieme ad altre piccole gioie quotidiane mi sorregge e sostiene di lunedì in venerdì. 

Modalità novant’anni: confesso di essere una signora all’antica che pensa che il mondo potrebbe essere migliore se si leggessero più libri, e che una persona é, non solo ma anche, i libri che ha letto.

Poi deve essere una reazione all’imbruttimento e decadimento dell’anima che mi sembra di sperimentare ogni giorno sulla mia pelle. Io cerco di difendermi e di riscattarmi come posso. La vita lavorativa, alcune vite lavorative almeno, specie se aziendali, sono degli ingranaggi che stritolano. Volti, non so se programmaticamente o meno, ad annullare la personalità di un individuo e farne dei replicanti.  

Può anche essere, naturalmente, che io esageri, ma mentirei se dicessi che non la vivo così. E per fortuna non sto in una di quelle enormi realtà molto molto strutturate e che un po’ conosco e dove la realtà, secondo me, è veramente quella. Penso che impazzirei, che già adesso poco ci manca.

Il quarto e per niente ultimo motivo é che andando e tornando dalla biblioteca passo davanti alla casa del cane più bello e simpatico del mondo e posso smanazzarmelo per mezz’ora se per caso non sta in casa e si trova a pascolare in giardino.

E non penso a lunedì, e poi c’è ancora domenica.

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Se tanto mi da tanto 

Forse ho già scritto della mia non cruenta battaglia, ancora senza esito, per portare a termine la voltura per la fornitura di energia elettrica di casa mia. Sono adesso dieci mesi che intercorre questo fitto scambio epistolare tra Enel e me, ma ancora non riusciamo a capirci.

Strano, perché di certo non sono un genio, ma so scrivere e leggere e fare di conto che dovrebbe essere quanto basta a chiunque per compilare un modulo con codice fiscale, indirizzo residenza e della fornitura, dati catastali, null’altro che questo.

Alquanto sorpresa dal (primo) diniego ad accettare la mia richiesta e a completare la pratica ho subito chiamato il numero verde dell’Enel per avere i necessari chiarimenti.  Mi sono sentita un po’ stupida, ma ero (ancora) collaborativa, assai desiderosa di sistemare la questione per sempre. 

Almeno fino a prossima voltura, subentro, nuova utenza. Enel sí, é la stessa Enel che di fatto le bollette le ha intestate a mio nome quasi da subito e in un amen si è intascata i ben settantanove euri e rotti necessari all’operazione.

Un’addetta, in verità molto gentile e che ha risposto in tempi brevissimi, mi ha specificato come e dove riportare esattamente i dati catastali dell’abitazione, e quali ignorare, perché quello pare sia il problema, anche se io non ho fatto altro che copiare i dati da una fottuta visura catastale e metterli nelle caselline corrispondenti. Comunque sia, ricompilo, e rispedisco, fiduciosa di chiudere la vicenda.

Invece no. Dopo qualche mese stessa storia, stessa missiva Enel: ricompilo secondo le leggermente diverse indicazioni della gentile seconda signora del call center su “opere ed omissioni dei dati catastali”, e rispedisco. 

I dati catastali sono sempre gli stessi, la casa è sempre la stessa, perfettamente legale, registrata, indagata in ogni mq, altezza dei soffitti, posti auto, numero dei locali, e ci pago fior di tasse. Quando dovevano arrivare i bollettini ICI o IMU pare non ci fosse mai alcun problema.

Terza volta, questa volta raccomandata con minaccia di sospendere la fornitura. Terza addetta del numero verde che interpello, Colei della teoria che sostiene l’Omissione della Particella, o del Numero di Registro, non ricordo: e così fu fatto. 

Ricompilo, e rispedisco. I dati catastali sono sempre gli stessi, la casa è sempre la stessa, perfettamente legale, registrata, indagata in ogni mq, altezza dei soffitti, posti auto, e ci pago fior di tasse, eccetera, eccetera.

Quarta volta che mi arriva una lettera di Enel nella quale mi scrivono che non riescono a formalizzare la pratica: e quarta addetta che sento, questa un po’ sbrigativa e maleducata, e che mi fornisce  ancora indicazioni leggermente diverse su quali dati catastali mettere, e quali omettere. 

Adesso il mostro é da due settimane che ce l’ho sul davanzale del calorifero di camera mia: ci guardiamo in cagnesco ogni mattina e sera, ma io mi sono rotta le scatole. Chi cederà per primo? I dati catastali sono sempre gli stessi, la casa è sempre la stessa, eccetera, eccetera, eccetera. 

Nel 2015, in alternativa alla sempre valida, efficiente, sicura ed ecologica spedizione della cartaccia per posta, Enel offre niente popo’ di meno che l’alternativa del fax. Quando il futuro è alle nostre spalle.

                                                                                 *****

Un sinistro sms da parte della mia banca mi informa due giorni fa di un addebito di 66 USD su mia carta di credito per il rinnovo dell’abbonamento a un’emittente podcast americana, solo che io la mia iscrizione fatta prima di Natale e che scadeva proprio in questi giorni non l’ho più  rinnovata. E nemmeno era mia intenzione farlo.

Intravedendo losche trame italian style e sentendo puzza di bruciato come un forestale ad agosto mando subito una mail con richiesta di chiarimenti al primo indirizzo mail che trovo. Tempo di risposta da parte di Stacey un’ora, forse un’ora e mezza, ma non di più. Dall’altra parte dell’oceano, non so su quale fuso.

Con molte apologies per the inconvenience Stacey mi dice che inoltrerà la mia richiesta al billing department, e che riceverò notizie entro due giorni lavorativi massimo. Faccio notare che io nemmeno ho chiesto poi così esplicitamente un rimborso, chiedevo solo di sapere perché fosse scattato in modo automatico il rinnovo.

Il giorno successivo quel vecchio amicone di Rob mi scrive chiamandomi per nome che il rinnovo era automatico nell’offerta da me sottoscritta prima di Natale, c’era una clausola nel contratto, cosa che probabilmente non avevo letto o che ho dimenticato. Tuttavia, in base alla loro policy “60 giorni soddisfatti o rimborsati”, mi riaccrediteranno i 66 USD, poi Rob manda a me e famiglia i suoi  warm regards.

Io, da italiana, finché non li vedo sul conto non ci credo. Infatti ancora non credo che succederà realmente. Ma se li vedrò manderò una commossa mail di ringraziamento, a Stacey e a Rob, dall’altra parte dell’oceano.  

E se produce questi frutti farò un silenzioso rispettoso inchino anche a quel sistema che, per alcuni altri versi, mi vede abbastanza critica. 


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Incomprensioni linguistiche

Sciocche considerazioni cultural-linguistiche sull’italiano e su quella lingua slava che cerco di imparare tra non poche difficoltà. Parte di queste difficoltà derivano proprio dal fatto di essere italiana e di avere un’altra forma mentis rispetto a un madrelingua russo, c’è poco da dire e da fare. Si ragiona in modo diverso, e delle lingue straniere questa cosa mi piace, mi affascina proprio: di quelle che avrei studiato, però, é il russo quello che vanta una maggiore “distanza”.

Correzione dei compitini della lezione precedente, ripasso di imperativo negativo di forma imperfettiva. Cerco di tradurre in russo una frase di un eserciziario, frase che in italiano ricordo suonare più o meno come: “non rovinare il libro perché è antico e di valore”. Non sono certa di sapere come si dica in russo “rovinare”, chiedo lumi alla professorina convinta di cavarmela in tre secondi e che poi mi basti aggiungere la desinenza dell’ imperativo singolare. 

La professorina, russa, ma che parla perfettamente l’italiano, mi chiede cosa voglia dire esattamente con “rovinare”. Beh, per me e per altri sessanta milioni di italiani e iscritti all’Aire rovinare vuol dire rovinare, e lei dovrebbe saperlo. 

Sí, ma rovinare come? chiede lei. Rovinare e basta, dico io, ovvero ridurre un oggetto in condizioni diverse e peggiori da quelle originarie, in questo caso da quelle del libro che te ti ho dato/prestato.

Sí, ma cosa intende esattamente ? Sporcare, strappare, macchiare, sgualcire?

Da italiana rispondo che a “noi” non importa come, in casi come questi non facciamo sofismi, siamo pratici:  non ci interessa se non debba cadere dal settimo piano, o non essere infilato nel microonde insieme ai broccoli, se non ci si debba versare sopra un barattolo di marmellata, o che non debba finire nella cuccia nel cane. Tanto il risultato sarà sempre lo stesso, un libro rovinato, quindi perché dannarsi l’anima a precisare, specificare, che importa con che modalità qualcuno dovrebbe non rovinarlo? 

Rovinare é il verbo che racchiude l’insieme di tutte quelle azioni o attivitá, indistinte e indeterminate, volontarie o involontarie, possibili, probabili o anche inimmaginabili che possano arrecare danno al mio libro, o nuocere gravemente alla sua conservazione futura. E tutte queste cose il verbo rovinare magicamente le contempla, tutte insieme, in una sola parola, compreso l’arrivo di Marziani che ci vomitino sopra.

Per un russo no, lui deve sapere come. Alla fine ci accordiamo entrambe su un “non strappare il libro perché è antico e di valore”. Cioè il libro potresti non strapparlo, peró restituirmelo macchiato, bagnato, bruciacchiato, con una cacca di piccione in terza di copertina, ditate di Nutella in copertina, e però va bene perché non ho specificato cosa dovresti non fare? 

Allora, dice lei, dovrebbe (io) rendere diversamente la frase, ad esempio “presta attenzione/abbi cura del libro perché etc. etc.”

Allora, dico io, in questo caso evviva la genericità, indeterminatezza, imprecisione e superficialità della lingua italiana, che poi spesso sono anche tratti associati, da fuori, al carattere nazionale. 

Non so se sia una lingua a plasmare il carattere di un popolo, o il carattere di un popolo che crea e forgia la lingua, e se avessi un cribbio da fare potrei anche spenderci mesi ed anni ad indagare tanto la questione la trovo divertente e interessante, ma tra le due entità ci deve essere una stretta relazione. 

E poi la classica caduta sul bagnato. In un’altra frase che dovevo tradurre circa un esame da sostenere  mi è “scappata” l’espressione “fare una brutta figura”. 

Sapevo che questo terreno infido e scivoloso probabilmente non le sarebbe stato sconosciuto, essendo la bella o brutta figura un’ossessione tipicamente italiana e molto legata all’apparire, perché la professorina oramai vive qui da una decina di anni. Su questo c’è un simpatico libro di Severgnini che consiglio sempre di leggere ad amici stranieri, o quando incontro qualcuno che studia l’italiano o è interessato alla nostra cultura, al nostro modo di vedere la vita. 

Che il tenace lavorio di instillare nelle giovani menti innocenti della prole questo concetto basilare dell’universo culturale italiano cominci già in giovane età ad opera di madri e nonne, meno spesso da parte di esponenti del sesso maschile, la professorina lo deve aver capito da un po’. Infatti si mette a ridere di gusto, come ritrovando qualcosa su cui in passato si deve essere spaccata la testa o confrontata diverse volte.

Mi racconta che anche lei e sua madre questa cosa riescono a dirsela solo in italiano, anche quando sono in Russia tra russi, e che l’espressione é entrata a far parte del loro quotidiano, del loro mondo, ma non riescono del tutto a far capire a amici o parenti cosa voglia dire, a far passare il concetto che sta alla base. 

Non riescono cioé a far capire e a tramettere ad altri russi che vivono in Russia, che se vivessero qui capirebbero, cosa significhi quell’impasto di ansie e preoccupazioni da “bella” o “brutta figura” conosciuto solo da Bolzano a Lampedusa, e che il resto del mondo sembra felicemente volere ignorare.

Compromesso storico anche su questo:  traduciamo con “studia, se no all’esame ti metterai in cattiva luce”, che va bene, ma non è la stessa cosa.

Manca quella sfumatura, manca quel colore. Non sono del tutto soddisfatta.

E temo anche che a fine giugno, al mio di esame, farò proprio una figura di m.

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Puó un lavoro 

Puó un lavoro rovinare realmente l’esistenza? 

Può un lavoro qualsiasi riuscire ad avvelenare non dico tutte ma buona parte delle giornate, per fortuna solo cinque su sette, togliere ogni energia ed entusiasmo e, giorno dopo giorno, mese dopo mese, arrivare a far scomparire del tutto il sorriso dalla faccia di una persona lasciandola più spenta di una lampadina fulminata? 

Al punto che quella persona si chieda cosa ci faccia al mondo, se valga davvero la pena di continuare così e maledica persino Ogino Knauss senza il quale probabilmente non sarebbe in questa valle di lacrime?  Può, un lavoro?

E può essere considerata prova del nove del fatto che, sí, non solo è possibile ma anche matematico che sia il caso di quella persona a me tanto cara, perché di sabato e domenica quella persona a me tanto cara in genere è felice come una pasqua, persino sbarazzina, e ha lo stesso peso specifico dello zucchero filato ?

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La volpe nel pollaio

Alla fine, poi all’Ikea, ci sono finita di domenica, ma in orario di pranzo e, anche se per trovare un parcheggio ho dovuto come sempre faticare parecchio, dentro ancora si poteva sopravvivere. Poteva andare peggio, e ho fatto in fretta.

Ho notato che va di moda portarsi i cani adesso all’Ikea. Chissà come saranno interessati e contenti, a trentadue gradi con un’umidità dello 0,2 %, a prendersi borsate sul muso, a schivare carrelli di due metri con tappeti, lampade, servizi di piatti, e poi non potere toccare niente, niente da annusare, nemmeno potersi fare una pisciatina. Io, quando avrò un cane, perché prima o poi ce l’avrò, non credo lo porterò all’Ikea: tutto qui, non mi hanno dato fastidio. E poi erano cani molto bene educati, socializzati, cittadini, abituati a stare in luoghi affollati, in mezzo alla gente.

L’ultima volta che ci sono stata, un anno, fa andavano gli infanti: ma non bambini, o bambini piccoli, proprio quelli quasi appena scodellati, tipo una settimana, dieci giorni.

All’Ikea io mi sento come una volpe nel pollaio, un predatore. O come un attore che vive per recitare mille parti e mille vite diverse e poi non capisce più chi è.  

Anche se il raid di oggi era motivato, in teoria, solo dall’acquisto di Äpplarö e di uno specchio a figura intera che mi manca da ottobre, quando ci ho picchiato dentro con l’aspirapolvere ed è andato in mille pezzi, perché gli specchi mi piacciono appoggiati a terra contro la parete, io all’Ikea soffro. 

E compro sempre di più di quanto effettivamente necessario o preventivato. Tipo fodere per cuscinotti, e relativi interni, quattro. Una candela profumata, anche se in genere non ne vado matta. E quattro vasetti di zinco per i fiori. E quattro vasetti di fiori per riempire i vasetti di zinco, ovvio.

Soffro e godo, e poi ancora soffro. Godo perché mi piace fantasticare come sarebbe il mio chalet sulle Rocky Mountains, e il mio loft bohémienne parigino, o il mio casale in Toscana, ma senza riuscire a decidermi chi e cosa vorrei essere, e dove, in quale posto del mondo sarebbe la mia casa ideale. E se arrampicata su una scogliera, magari un’isola, forse in un palazzo fine secolo della vecchia Europa, ma anche in una brown stone di New York come Carrie Bradshaw, o tra i campi di lavanda e il blu del mediterraneo all’orizzonte. Perché sento di essere di fatta di tanti pezzettini, apparentemente in conflitto tra di loro, e invece no, perché tutto questo mi appartiene, e potrei stare bene in molti posti.

E poi soffro, perché in preda a un delirio di onnipotenza da sovrastimolazione visiva vorrei portare tutto in discarica e dare fuoco a casa mia, ma beccarmi l’assicurazione: e vorrei farlo una volta al mese, e ripartire da zero, potendo coordinare gli interni, anche quelli degli armadi e il contenuto dei cassetti, al contesto di volta in volta diverso che credo di avere deciso sia il mio, il mio habitat naturale. E viceversa, partire dai cassetti e dagli interni degli armadi per scegliere la casa, il luogo, la posizione, latitudine e longitudine.

Metropoli che non dorme mai? Allora tutto grigio e tortora con pareti bianche e spoglie, molto minimal, molto jap, molto chic. Rustico in pietra tra gli ulivi?  Più banale, un tocco di provenzale, con mobili in materiali recuperati e un po’ ammaccati, e cuscini in tessuti luminosi e colorati, in fantasie diverse, quadretti vichy e fiori, materiali caldi come il cotto, il legno grezzo, la pietra. Poi ritrovo l’amore per la pulizia delle linee, l’essenzialitá e la luminosità del design scandinavo, e allora casa é l’ultimo piano di un edificio cittadino di fronte a un parco con i lampioni in ferro battuto, ha i soffitti alti, il parquet che scricchiola, e finestre molto grandi.

In prossimità delle casse mi riprendo, pago le mie masserizie e la mia paccotaglia e me ne torno a casa, la mia unica casa: che non è jap, che non è su una scogliera a picco sull’oceano, che ha soffitti standard di tre metri.

Con Stava, specchio 165×70 cornice bianca, ma senza Äpplarö, che se no in macchina non ci entravo io. Ho dovuto scegliere. 

Comunque il materassino sfoderabile di Äpplarö costa cinquantanove euri, quasi quanto il lettino, anche se l’insieme fa una sporca, sporchissima figura. 

Prossimo giro, prossima corsa.

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Magnolia, non il film 

La pianta più maestosa, solenne ed elegante del mondo é la magnolia, con le sue foglie verde scuro e lucide, come incerate, e i fiori bianco rosati e profumati. La magnolia é una pianta di sesso femminile, non solo per il nome, così come un abete é una pianta di sesso maschile, non ci sono dubbi. Un giorno lo scriverà anche la Treccani.

La magnolia é un sempreverde, non è mai triste, non bisogna spalare quintali di foglie morte, é una pianta intelligente.

C’era, una volta, una magnolia, rigogliosa e bellissima, nel giardino di una casa dove ho abitato, e ogni primavera aspettavo impaziente di rivedere ed annusare i suoi fiori. Anche se, essendo la fioritura sempre estremamente abbondante, quell’odore, per quanto buonissimo, nell’insieme quasi mi stordiva quando ci si avvicinava.

Oggi ho deciso di comprare una magnolia in fasce che pianterò in una grande fioriera così che possa seguirmi ovunque, ovunque io abiterò.



E poi vorrei delle ortensie, anche se sono delle carogne, e richiedono terreno e concime particolare: però poi rimangono fiorite per diversi mesi di fila, fino alla fine dell’estate se ricordo bene.

Non se ne vedono più in giro di ortensie nelle case moderne, non sono hipster. Fanno tanto inizio Novecento, liberty. Riescono ad essere inattuali senza essere vintage, e hanno delle sfumature e dei colori Impressionisti che mi piacciono nei fiori, per cui anche qualche ortensia.

Poi, per me, la stagione può cominciare.

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Il giorno prima di domani

Mentre giravamo insieme un film nel sud della Spagna Xavier Bardem ed io siamo diventati amici, poi abbiamo cominciato a frequentarci. Un uomo piacevole, affascinante, e molto ma molto sexy.

Poi le sue richieste e le sue offerte, insistenti, sono diventate di altro tipo, ma io niente. Imperterrita, ho resistito alle sue avances cercando di motivare ragionevolmente il mio rifiuto:  non volevo ferire il povero uomo, che se no chissà quale pazzia avrebbe potuto combinare. Perché non sarebbe stato solo sesso, c’era di più, sosteneva lui.

Di Penelope nemmeno l’ombra. Poi Penelope chi? E anche se ci fosse stata non avrebbe potuto oscurare la mia luce.

Poi però un po’ mi avevo cominciato a pentirmi, che mi sentivo come il risveglio della natura a primavera, tutta in fiore, un’esplosione di energia. Perché non avrei dovuto lanciarmi in questa avventura, farmi trasportare dal vento, travolgere dagli eventi, vivere e basta?

Poi mi sono svegliata, e ho cominciato a organizzare i sacchetti da portare fuori per domani mattina, giorno della carta e della plastica.

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Quelli che

Quelli che sono così ecologici e green che si sentono al di sopra delle leggi e del buon senso e girano in bicicletta la sera senza fanalini accesi, o ceri o candele, o senza nemmeno uno coriandolo di 2 cm quadrati di carta rinfrangente appiccicato da qualche parte. Che poi se non li vedi e li tiri sotto sono affari tuoi, ma intanto loro in tutto questo riescono anche a passare con il semaforo rosso.

Ma questo succede anche di giorno alla luce dal sole, però non ho mai visto un vigile multare un ciclista.

A me piace molto andare in bicicletta, infatti il mio regalo di compleanno a me stessa sará una bicicletta nuova fiammante.

Quelli che in macchina vanno a ventidue all’ora quando il limite massimo é di cinquanta perché si devono scaccolare il naso, o sono al telefono, o devono interloquire con figli o fidanzata, e che quando arrivano in prossimità del semaforo, già arancione, fanno un’ accelerata e una sgasata da sprinter, e alla fine passano con il rosso.

A questa gente auguro senz’altro una lunga vita serena ma, anche, le emorroidi. A grappolo.

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