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I carabbinieri

A distanza di quasi una settimana dal fatidico giorno in cui i ladri hanno fatto irruzione in casa mia, un innocente e tranquillo sabato pomeriggio decisamente autunnale, c’è una cosa che mi rode il culo quasi quanto tutte le altre cose che possono rodere in frangenti come questi, che sono parecchie e facilmente immaginabili.

E sono esattamente le stesse di quando mi hanno analogamente spazzolata una ventina di anni fa, ma forse peggio.

A Vorkuta nessuno la passa liscia: se la prossima volta dovesse succedesse solo tra altri  vent’anni quasi quasi ci farei la firma, per dire, e mi considererei fortunata visto che da queste parti fanno raid mensili-stagionali nei garage e nelle cantine anche solo per le conserve di pomodoro o il vino.

Lasciata decantare l’emotività, la rabbia, la sensazione di vulnerabilità del momento e la certezza della totale assoluta impunità degli autori qualora anche li beccassero (ahh ahaha) se li cercassero (ahahah ahahah), quello che tuttora punge come tanti spilli è come mi hanno trattata le solerti forze dell’ordine arrivate sul luogo del misfatto per la constatazione dell’accaduto.

Non con maleducazione, almeno in apparenza: sarebbe quasi impossibile provare in un tribunale o davanti a un loro superiore un'”accusa” come questa.

Ma con una sottilissima e ben peggiore impalpabile arroganza venata di sessismo, di paternalismo del tutto fuori luogo visto che sono una donna matura, il tutto condito da una padellata di cazzi-altruismo da portinaia del sottoscala per nulla consono al loro ruolo e al frangente, e nemmeno alla loro interlocutrice che non è una minorenne squatter scappata di casa.

Un’accoppiata che definirei sintetizzando: il corto non autoctono comunque investito del suo ruolo, e il bislungo autoctono semi-assente ma con uno spiccato quanto inopportuno interesse per i catzi degli altri e per gli immobili della zona.

Sul corto non autoctono non molto da dire, tranne che dall’età di sei anni in poi dovrebbe essere evidente la distinzione tra una casa indipendente e un condominio. Perciò perché me lo chiedi a fare se siamo in un condominio o in unità indipendente. No, non ci fai una bella figura.

Secondo: perché la prima cosa che mi chiedi in assoluto ancora prima di tirare fuori le tue scartoffie è che lavoro faccia? Che io faccia la veterinaria, la volontaria in Uganda, l’allevatrice di procioni, la cercatrice d’oro in Klondike, la pedicurista, la mantenuta … ha una qualche importanza ? Infatti gli chiedo tenendo a freno la lingua biforcuta, che son sempre tutori della legge: “cambia qualcosa?” Mi risponde scuotendo la testa che no, in effetti non cambia niente.

Sono certa che a un uomo non si sarebbe mai permesso di chiedere che lavoro faceva, infatti in nessuna parte dei moduli che compila viene richiesta o trascritta questa informazione. Ma a una donna,  a una donna sola che osa rientrare da sola dal cinema nel tardo pomeriggio di sabato, sì, si può chiedere, anche se l’informazione non serve a niente.

Non venitemi a dire che non è il retaggio di cultura sessista e misogina che  credevo estinta dagli anni 50 del secolo scorso.

Nel frattempo il bislungo autoctono esordisce in tutta la sua quadrangolare ottusità e insensibilità chiedendomi, mentre si guarda in giro facendo una valutazione dei metri quadri o di altre cose che ha in mente, perché si vede che a qualcosa sta pensando, se non sarebbe meglio per me vivere in un piccolo appartamento invece che qui dove sto.

Mi pento solo di non avere avuto la risposta pronta, ancora visibilmente scossa per quanto accaduto, e di avere incassato senza reagire. Non è affatto nel mio carattere. Io non le mando a dire.

Mi chiede anche se non mi converrebbe prendere un cane, come se non ci pensassi ogni giorno e ogni ora della mia vita, che nulla desidero di più di un cane, ma se non l’ho ancora fatto evidentemente un buon motivo ci deve essere.

Cioè brutto incapace, tu sei nello svolgimento delle tue funzioni, pagato per questo. Mi va bene anche che te ne strafotta di quello che mi è successo, che a malapena mi saluti quando entri in casa, però ti permetti di fare le pulci alla mia vita, dove vivo, come vivo, perché vivo qui e non in un là ipotetico che magari nemmeno desidero perché forse sto benissimo dove sto, e   senza nemmeno sapere (e ci mancherebbe anche) il perché e il percome e le vicende della mia esistenza.

Come se non potessi decidere di piantare una tenda in giardino se lo volessi, e di andare a dormire lì la notte invece che nel mio letto. O se non potessi scegliere di vivere mangiando pane e cipolle pur di non tornare al settimo piano in un pollaio, o come se non potessi o non avessi le mie ragioni o motivi per vivere in questa casa.

Ma chi sei per dare consigli, per fare domande, per trarre conclusioni, per darmi suggerimenti, per impicciarti dei fatti miei? Sono convinta che ad un uomo, ad un  ragazzo sopra i venticinque, non si sarebbe mai permesso di fare domande simili, e una tale mancanza di rispetto.

Scendendo le scale, non si sono trattenuti molto che c’era anche poco da dire, il bislungo autoctono batte con le nocche della mano sul muro. Stava facendo un’attenta valutazione del cemento armato. Magari cerca casa, o suo cognato lavora in qualche agenzia qui intorno.

A quel punto avrei voluto fargli lo sgambetto, e mi sarei fatta una grassa risata nel vederlo rotolare per le scale.

Grazie comunque per il quasi pronto sopralluogo e per la cortesia e sensibilità del Maresciallo della locale Stazione quando il giorno dopo ho sporto denuncia.

 

 

 

 

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Intolleranza acquisita, no lattosio no glutine

Da oggi ho fatto mia ed assorbito fino in fondo  l’idea null’affatto peregrina  che molta della mia misantropia di questi ultimissimi anni sia dovuta e da ricondurre anche all’ambiente lavorativo, cioè a quegli n. metri quadri dove trascorro molta della mia vita, e a come questi mq siano organizzati e disposti. 

Da quando l’ufficio ha subito l’ultima geniale trasformazione spazio-logistica-organizzativa la mia vita sociale é praticamente collassata, ridotta al lumicino. E ti credo.

Non saprei davvero stimare la metratura di quel luogo di perdizione, non ho davvero occhio per queste cose, ma direi non più di una trentina di metri quadrati.

30 metri quadrati organizzati e disposti alla cacchio ed arredati come gli uffici della stazione Termini negli anni 80, mancano solo il ritratto di Pertini, quello di un Papa a scelta, e il ramoscello d’olivo.

In questa superficie che un qualsiasi immobiliarista definirebbe “luminosa”, cosa che non posso assolutamente negare, e “bene esposta”, cosa che invece nego con risolutezza – oggigiorno ci si farebbe saltare fuori  comodamente un bilocale, solo che a contenderci l’ossigeno e gli spazi vitali là dentro ogni giorno siamo in sei. Sei.

Sei fissi, esclusi ferie, infortuni, malattie. Più un tipo consulente che vi appoggia le chiappe di tanto intanto, sette.

Più quelli di passaggio per motivi di lavoro, o che amano intrattenersi per il gossip, o prima, dopo o durante la pausa caffè. E siamo a otto-dieci come niente.

Più quelli di passaggio per la sala server, interni (facce note) ed esterni (con cartellino di identificazione), ed è sempre un bel viavai e codazzo di gente perché il nostro Hal 9000, un baraccone che non ho mai visto, ne ha sempre una.

Se si considera che l’italiano medio, come tutti i popoli latini, é in generale piuttosto rumoroso – per non dire molesto – quando parla, telefona, ride, chiede, commenta, esterna, si confronta, e parecchio teatrale nelle sue manifestazioni e anche un po’ logorroico, ecco che quei trenta metri quadri scarsi di fottutissimo open space senza nemmeno i cubicoli e divisori che si vedono nei film americani diventano l’inferno in terra.

Con effetti deleteri sul rendimento e la produttività individuale e di gruppo, e non ci vuole molto a capirlo, ma anche sullo stato psico-fisico dell’individuo ben oltre l’orario lavorativo, punto che sinceramente mi interessa e preme di più. 

Così ci sono dei giorni in cui io credo di detestare l’umanità tutta, indistintamente, ma con un occhio di riguardo per quella ammassata nei famosi trenta mq scarsi. 

E se per qualcuno di loro è pure vero a prescindere da Stazione Termini, cubicoli e divisori, e in un mondo perfetto con costoro non potrei nemmeno condividere lo stesso emisfero, per altri non è così. Non dico ci uscirei a cena, ma insomma bravi cristi, nulla di personale. 

È quella vicinanza quotidiana imposta e costante, giorno dopo giorno, quella mancanza di intimità, raccoglimento, concentrazione, silenzio, quella forzata promiscuità di corpi, voci, risate, colori, odori. Riesco ad arrivare a detestare persino la loro prossemica, una maglia dai colori troppo sgargianti, un cellulare lasciato in modalità vibrazione.

Oggi a un certo punto mi sono vista salire sul tavolo, portare le mani intorno alla bocca e gridare a tutti quanti come una pescivendola “chiudete un po’ quel cazzo di bocca”. Che le cose che dicevano in venti minuti effettivamente avrebbero potuto dirle in due, specie se non attinenti al lavoro, e magari anche a voce bassa. 

Per fortuna non l’ho fatto, lo yoga aiuta, e domani è un altro giorno.

Per fortuna quando arrivò così é sempre giovedì o venerdì.

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Sul perché 

Sul perché per un intero mese non abbia niente da dire e zero voglia di scrivere, e perché poi in poche ore partorisca una mezza dozzina di post di fila la risposta è: boh. Dico, se qualcuno me lo chiedesse, il che non è.

Ma me lo chiedo io. Sono sempre stata discontinua e incostante nelle mie prestazioni, umorale, tranne che nelle prestazione lavorative in Multipaesana, ma perché lì non sono io ma un’automa. Questa sarebbe la risposta.

Sempre stata così, sin da piccola.

E adesso che quasi tutti buttano la pasta vado a decidere del mio futuro alimentare e della mia salute per i prossimi tot. anni: vaporiera, microonde combinato, niente del tutto.

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Massaggio plantare mix riflessologia

Signori miei il paradiso, trenta minuti di paradiso. Quel donnino ha le mani d’oro.

Spiace dirlo ma quasi meglio della ginnastica da camera, e se non meglio almeno come, ma in modo diverso.

Con l’inatteso insperato e mai nemmeno messo in conto risultato che mi sento tolti dalla schiena almeno venticinque kg, che cammino spedita, leggera e leggiadra come a sedici anni e che ci ho guadagnato almeno tre cm di statura, ma seriamente.

Erano già miei, ma mancavano all’appello da qualche tempo perché somatizzo tutto in zona sacrale lombare, e stavano lì, rincagnati.

Senza contare che mi ha lasciata unattended per tre minuti e quando é tornata mi ero addormentata. Mi hanno lasciato ronfare per trenta minuti per gentilezza, poi sono stata sfrattata. Serviva il lettino.

Mi ha aperto i chakra, dice il donnino dalle mani d’oro, e io a questa storia dei chakra comincio a crederci, e voglio saperne di più.

Non ho ancora capito bene se le cose sono collegate, yoga e chakra, ma credo di sí, stessa filosofia. Vicino a casa mia un’associazione ha aperto da poco una piccola palestra dove organizzano corsi di yoga iyengar che guarda caso, da info reperite in fretta e furia dall’amico Google, dovrebbe essere proprio il filone che mira alla postura, al bilanciamento, al riallineamento vertebrale muscolare. 

E se continuo a somatizzare quintalate di quotidiana merda Multipaesana, che mi (ci) sta mandando ai matti, io lo so di essere destinata a diventare svergola come un ulivo. Vorrei tanto riallinearmi tutta, e diventare saggia e paziente, tanto tanto, tanto saggia e tanto paziente, imparare a lasciare correre, e scorrere.

Penso che il massaggio dal mio donnino dalle mani d’oro sarà uno di quei pochi “lussi” che mi vorrò permettere una volta al mese. 

È salute, é benessere reale, non fregnacce: sto fisicamente da Dio.

Mai stata così bene nemmeno dopo aver fatto un ciclo di ginnastica vertebrale e di fisioterapia in seguito a un paralizzante colpo della strega.

Per me il donnino ci starebbe anche una volta a settimana, che in spa e simili potendo ci butterei lo stipendio.

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Ogni lustro cambio gusto

Se mi chiedessero oggi addì 22 luglio Anno del Signore 2015 quale è la mia stagione preferita non esiterei un secondo a rispondere: l’inverno.

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Dopo internet

Secondo me dopo Internet e la centrifuga la migliore invenzione degli ultimi venti anni é stata BlaBlacar, servizio gratuito di passaggi automobilistici di cui mi sono avvalsa qualche volta in passato con mia somma soddisfazione e gran divertimento. Per chiarezza: gratuito il servizio, non il passaggio.

Anche se la seconda volta sono stata lasciata a piedi a mille chilometri lontana da casa il giorno prima di rientrare al lavoro perché, beh, il tizio italiano con cui mi ero accordata prima della partenza, cioè venti giorni prima, aveva cambiato idea e deciso di rientrare qualche giorno più tardi.

Devo fare un breve spostamento a nord-est questo weekend, non ho alcuna voglia di guidare e ancora meno di prendere treni e girare per stazioni affollate in periodo vacanziero, ho già preso contatto con due tizi che devono fare lo stesso itinerario di qualche centinaio di chilometri.

Non c’è niente che mi piaccia di più e mi metta di buonumore di stare in macchina qualche ora con persone del tutto sconosciute e incontrate a caso, come numeri sorteggiati da una lotteria.  E di viaggiare non concentrata alla guida ma guardando fuori dal finestrino, ciarlando, ascoltando storie, e brandelli di vita altrui. 

A moltissimi conosciuti preferisco infatti dei totali estranei, con i quali si parte da zero, e poi tanti saluti a casa e “é stato bello, ciao”. In caso diverso esistono il telefono, la posta elettronica, i segnali di fumo. La trovo una cosa estremamente stimolante soprattutto per chi, come me, fa una vita molto monotona e piatta, senza sorprese che non siano palate in faccia, vita da criceto sulla ruota.

Finora mi è sempre andata molto bene anche quando, proprio all’ultimo giro, tra i passeggeri ho trovato una soggetta che ho fatto non poca fatica a sopportare per sei ore e più di interminabile viaggio, ma é stato altrettanto interessante ed educativo, come in un romanzo di formazione.

Ho dovuto mettere alla prova la mia soglia, diciamo bassina, di resistenza e di sopportazione, e praticare l’ars diplomatica cui sono poco avvezza, tutto al fine della pacifica convivenza con gli altri trasportati che è sempre l’obiettivo supremo.

Se mi chiedessero cos’è la felicità io direi cosa sarebbe per me la felicità adesso: godere di una discreta salute (ce l’ho), e avere abbastanza soldi (non ce li ho) per potere girovagare a zonzo e via terra per paesi e regioni d’interesse, con gente incontrata per caso, senza lussi ma con decoro. Ovviamente senza più lavorare. 

So già dove mi fermerei adesso, non importa sud o nord, ma vicino al mare, meglio ancora vicino ad un oceano con spiagge chilometriche e possibilmente deserte, ma non lontano da un centro abitato con un pó di vita. Mi vengono in mente certi posti e certe coste del Portogallo.

Magari fermarsi qualche mese in un luogo che piace molto, in cui ci si sente a casa, non girare sempre come una trottola. Incontrare tanta gente che vive così, perché ce n’è, che ha capito la gabbia in cui ci siamo cacciati con la palla delle sicurezze e dell’indomani, che tanto non ci sono più sicurezze di nessun tipo, a cominciare dal fatto che magari non arrivi al mattino dopo.

Non ce li ho questi soldi, già detto. Provo a visualizzare la scena, ogni giorno, ogni giorno diverse volte al giorno, dicono aiuti, ma anche se me lo punto sul calendario come obiettivo dei prossimi sei mesi rimarrà solo un sogno.

Ah, io questo girovagare da viandante del ventunesimo secolo lo farei con BlaBlacar, garantito.

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In verità 

Siccome è calda e mi sta a cuore. Io non penso proprio che Grillo, che non ho mai votato e che non apprezzo particolarmente*, e a volte nemmeno capisco, volesse dire alle donne di non fare mammografie perché sono inutili, o dannose. 

Probabilmente avrà voluto “denunciare” o faceva riferimento a certe cricche e giri strani tra i vari istituti ed enti ospedalieri e i produttori di macchinari diagnostici/sanitari, traffici loschi che sicuramente esistono, perché in questo paese esistono anche sulle lenzuola e sulla carta igienica, o sulle salme dei cari estinti.

Ma da lì a pensare che Grillo sostenesse di non sottoporsi a questo tipo di esame preventivo ce ne corre, oppure io mi sono persa la parte fondamentale, e allora mi scuso.

Avranno rigirato e/o male interpretato la frittata come al solito, pur di mettergli in bocca castronerie e per fare un po’ di caciara, in puro stile giornalistico italiano.

*e se un giorno torneremo a votare non saprei da che parte girarmi 

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Di cose serie

Il mio instabile ballerino umore ha subito un tracollo verticale, da discesa libera, dal giorno in cui, più di un mese fa, la munifica previdente Regione in cui vivo, per farmi festeggiare il compleanno in tutta serenità, mi ha convocata per uno screening gratuito a carattere preventivo, l’esame mammografico, come fa regolarmente con tutte le signore dopo una certa età. Etá dopo la quale l’incidenza dei tumori al seno diventa, purtroppo, statisticamente e numericamente più rilevante, tanto da essere, come mi ricordava il simpatico tecnico radiologo che questo esame me l’ha fatto, prima causa di morte per il gentil sesso. Insomma, mica si scherza.

Essendo tutt’altro che nuova a questa delizia per motivi, ahimè, di familiarità con tale brutta cosa, devo dire che a mandarmi fuori di testa del tutto, che se no basta anche molto meno, è stato il fatto che io negli ultimi 3 anni virgola quattro mesi, per mia e mia sola assoluta irresponsabilità, scemenza, pigrizia, fifonaggine, fatalismo e tanto altro, non ho più fatto i controlli che mi sono stati consigliati e che prima avevo sempre fatto, anche in eccesso, ma che dovrei fare almeno a cadenza annuale. 

Ancora prima di aprire la missiva della Regione, che io ignoravo che della mia buccia potesse interessasse così tanto, lassù al Pirellone, e non mi aspettavo nulla di simile, io mi sentivo già un bel po’ in colpa, proprio un verme, una mentecatta. Delusa ed arrabbiata, ma solo con me stessa, per essere così stupida da lasciare al caso il fondamentale della mia vita/esistenza, e senza peraltro nemmeno più riuscire a vivere serenamente la quotidianitá. Sempre più spaventata e in preda al panico mano a mano che quel terrificante ventinove di aprile di avvicinava, con quell’enorme spada di Damocle sul capoccione, senza confidare condividere il mio psicodramma con anima viva. Anche se qualcuno che non se lo meritava un bel po’ di questo nervosismo se l’é ciucciato, totalmente ignaro, totalmente all’oscuro dei foschi pensieri che attraversavano la mia mente: non fiori, ma opere di bene.

Poi il ventinove di aprile é arrivato anche se io gli remavo forsennatamente contro, e ho trovato in questo nuovo ospedale pubblico, tra l’altro vicinissimo a casa mia che ci vado a piedi, puntualità, cortesia, attenzione e riguardo per le mie paranoie, per le mie paure, e risposte alle mie domande, umanità e professionalità.  Ovviamente per la fortunatamente brevissima e molto parziale esperienza che ho avuto io, altro non saprei dire e fortunatamente non lo saprò, ma è già l’esatto contrario della struttura privata convenzionata nella quale ero solita recarmi e dove, negli ultimi tempi, mi avevano fatto sentire peggio di un numero, carne da macello. 

Pare che sia andato tutto bene, pfiuu, e io sono rinata, con l’umore ballerino e tutto quanto, ma liberata di un peso che non riuscivo più a sopportare né a gestire.

 

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La volpe nel pollaio

Alla fine, poi all’Ikea, ci sono finita di domenica, ma in orario di pranzo e, anche se per trovare un parcheggio ho dovuto come sempre faticare parecchio, dentro ancora si poteva sopravvivere. Poteva andare peggio, e ho fatto in fretta.

Ho notato che va di moda portarsi i cani adesso all’Ikea. Chissà come saranno interessati e contenti, a trentadue gradi con un’umidità dello 0,2 %, a prendersi borsate sul muso, a schivare carrelli di due metri con tappeti, lampade, servizi di piatti, e poi non potere toccare niente, niente da annusare, nemmeno potersi fare una pisciatina. Io, quando avrò un cane, perché prima o poi ce l’avrò, non credo lo porterò all’Ikea: tutto qui, non mi hanno dato fastidio. E poi erano cani molto bene educati, socializzati, cittadini, abituati a stare in luoghi affollati, in mezzo alla gente.

L’ultima volta che ci sono stata, un anno, fa andavano gli infanti: ma non bambini, o bambini piccoli, proprio quelli quasi appena scodellati, tipo una settimana, dieci giorni.

All’Ikea io mi sento come una volpe nel pollaio, un predatore. O come un attore che vive per recitare mille parti e mille vite diverse e poi non capisce più chi è.  

Anche se il raid di oggi era motivato, in teoria, solo dall’acquisto di Äpplarö e di uno specchio a figura intera che mi manca da ottobre, quando ci ho picchiato dentro con l’aspirapolvere ed è andato in mille pezzi, perché gli specchi mi piacciono appoggiati a terra contro la parete, io all’Ikea soffro. 

E compro sempre di più di quanto effettivamente necessario o preventivato. Tipo fodere per cuscinotti, e relativi interni, quattro. Una candela profumata, anche se in genere non ne vado matta. E quattro vasetti di zinco per i fiori. E quattro vasetti di fiori per riempire i vasetti di zinco, ovvio.

Soffro e godo, e poi ancora soffro. Godo perché mi piace fantasticare come sarebbe il mio chalet sulle Rocky Mountains, e il mio loft bohémienne parigino, o il mio casale in Toscana, ma senza riuscire a decidermi chi e cosa vorrei essere, e dove, in quale posto del mondo sarebbe la mia casa ideale. E se arrampicata su una scogliera, magari un’isola, forse in un palazzo fine secolo della vecchia Europa, ma anche in una brown stone di New York come Carrie Bradshaw, o tra i campi di lavanda e il blu del mediterraneo all’orizzonte. Perché sento di essere di fatta di tanti pezzettini, apparentemente in conflitto tra di loro, e invece no, perché tutto questo mi appartiene, e potrei stare bene in molti posti.

E poi soffro, perché in preda a un delirio di onnipotenza da sovrastimolazione visiva vorrei portare tutto in discarica e dare fuoco a casa mia, ma beccarmi l’assicurazione: e vorrei farlo una volta al mese, e ripartire da zero, potendo coordinare gli interni, anche quelli degli armadi e il contenuto dei cassetti, al contesto di volta in volta diverso che credo di avere deciso sia il mio, il mio habitat naturale. E viceversa, partire dai cassetti e dagli interni degli armadi per scegliere la casa, il luogo, la posizione, latitudine e longitudine.

Metropoli che non dorme mai? Allora tutto grigio e tortora con pareti bianche e spoglie, molto minimal, molto jap, molto chic. Rustico in pietra tra gli ulivi?  Più banale, un tocco di provenzale, con mobili in materiali recuperati e un po’ ammaccati, e cuscini in tessuti luminosi e colorati, in fantasie diverse, quadretti vichy e fiori, materiali caldi come il cotto, il legno grezzo, la pietra. Poi ritrovo l’amore per la pulizia delle linee, l’essenzialitá e la luminosità del design scandinavo, e allora casa é l’ultimo piano di un edificio cittadino di fronte a un parco con i lampioni in ferro battuto, ha i soffitti alti, il parquet che scricchiola, e finestre molto grandi.

In prossimità delle casse mi riprendo, pago le mie masserizie e la mia paccotaglia e me ne torno a casa, la mia unica casa: che non è jap, che non è su una scogliera a picco sull’oceano, che ha soffitti standard di tre metri.

Con Stava, specchio 165×70 cornice bianca, ma senza Äpplarö, che se no in macchina non ci entravo io. Ho dovuto scegliere. 

Comunque il materassino sfoderabile di Äpplarö costa cinquantanove euri, quasi quanto il lettino, anche se l’insieme fa una sporca, sporchissima figura. 

Prossimo giro, prossima corsa.

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Dammit.

Stiramento del muscolo del polpaccio, ed ero ancora al riscaldamento: autodiagnosi, però qualcosa é successo perché mi sono proprio dovuta fermare.
Non tollero l’idea di dovere star ferma per un paio di settimane, dovrò inventarmi qualcosa per la mia dose quotidiana, che ne so, tutto braccia, solo addominali.
L’ideale, a pochi giorni da due settimane di vacanze.
Nel frattempo, da sdraiata, cazzeggio.

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