Archivi del mese: febbraio 2015

Rivalutando Ballando con le Stelle

Sabato sera: premesso che è un bel po’ di mesi che non vado al cinema decido di ributtarmi nella mischia e andare a vedere il film vincitore del Premio Oscar 2014 freschissimo di nomina.
Mi interessava non tanto in quanto vincitore del premio ma perché la regia di Alejandro Iñarritu, autore della Trilogia sulla Morte con  Amores perros, 21 Grammi e Babel  mi pareva una garanzia, al punto che di Birdman non ho letto la trama, le critiche, tantomeno  le motivazioni per l’assegnazione di ben tre premi, per la migliore regia, per la migliore scenografia originale e per la fotografia.

Ci sono andata a scatola chiusa coinvolgendo in modo irresponsabile e colpevole un’amica che condivide parecchi gusti in fatto di cinema, libri, visione delle cose e del mondo.

Non saprei dire più di questo per demolirlo, e con dispiacere: secondo me inesistente, inconsistente, pretenzioso, avvitato su se stesso, claustrofobico. Personaggi senza profondità e spessore ridotti a macchiette/archetipi, l’attore sulla via del tramonto, la ragazzetta viziata passata per il rehab, i dialoghi di una banalità e vacuità senza uguali, lunghissimo e poco scorrevole.

Di una noia mortale al punto di avere cominciato a diventarci pesante già dal decimo minuto. Evidentemente come alla signora seduta in parte che ha smanettato sull’iPhone per tutto il tempo. 

Avrei voluto abbandonare la sala, cosa che credo di avere fatto solo una volta in vita mia: molti anni fa, da sola, mi ero infilata un pomeriggio in un cinema semivuoto per vedere un interminabile polpettone epico indiano della durata di tre o quattro ore, il Mahabhrata.    

http://en.m.wikipedia.org/wiki/The_Mahabharata_(1989_film) 

Non avevo resistito e avevo fatto fagotto nonostante ci recitasse il buon Vittorio Mezzogiorno. La differenza con allora é che stasera eravamo sedute nel mezzo della fila, il cinema era pieno zeppo e non volevamo disturbare. 

Posso solo dire che le poltrone della sala, che conosco benissimo, non mi sono mai sembrate così scomode e gli spazi tra le fila così angusti come con Birdman, come fare avanti e indietro dall’Australia con un volo Ryanair, e che non sarebbe male introdurre per i film la formula soddisfatti o rimborsati. 

 Nulla da eccepire, sia chiaro, sulla recitazione di Michael Keaton, Naomi Watts, Edward Norton, Emma Stone.

Sono così saliti a quattro i film che, in tanti anni di frequentazioni di sale cinematografiche mi hanno talmente delusa ed indotta allo sbadiglio da volermene andare.

Con il Mahabhrata l’ho fatto davvero, ma ero tanto giovane, impaziente, immatura. Mi son sentita molto in colpa quando Vittorio Mezzogiorno é prematuramente scomparso pochi anni dopo. 

 La voce della luna: con un bel po’ più di anni sul groppone sarei disposta a dargli una seconda chance perché di Fellini ho amato e amo tanto tutto. Comunque l’accoppiata Benigni –  Villaggio anche a distanza di tanto tempo mi sembra sempre stonata e che non possa funzionare.  http://it.m.wikipedia.org/wiki/La_voce_della_Luna

Il re della terra selvaggia, un altro film recente. http://www.mymovies.it/film/2012/beastsofthesouthernwild/. 

 In un tweet: fastidioso, bravissima la nanerottola. Unico motivo per restare sino alla fine il fatto che fuori diluviasse e che le poltrone di quell’altra sala della città tentacolare siano decisamente comode, una business class della Singapore Airlines.

Ed infine questo Birdman, dal quale sto ancora cercando di riprendermi, come dal fatto che con l’ultimo aggiornamento di WordPress giustificare il testo sia diventato una fatica immane e vana, grrrrr…..

Alejandro, cosa mi è sfuggito e cosa non ho saputo cogliere, capire, apprezzare ? 

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Stalking telefonico commerciale, sempre lui

Per quel poco che posso rilevare guardando le statistiche di accesso a questo blog, per esempio tra le altre cose non ho ancora capito la differenza tra visite e visitatori, il più gettonato e ricercato di tutti gli argomenti dei quali ho scritto é lo stalking telefonico.
Una buona parte della gente che finisce qui è perché ricerca informazioni al riguardo, come ho fatto io più di una volta senza peraltro trovare soluzioni risolutive.
Infatti non se ne troveranno nemmeno in questo post, perché non ce ne sono, forse l’espatrio.

Sono felice che arrivino per questo motivo perché mi considero la Pasionaria della molestia telefonica pur essendo in grado solo di ridare quattro semplici consigli.
Installare applicazione Blacklist su telefono portatile, poi candidare subito gli sviluppatori al premio Nobel per la Pace.
Telefono di casa sempre staccato, serve solo per il wifi o per fare telefonate.
MAI dare numeri di telefono quando si firmano i moduli per carte fedeltà, carte sconto, carte a sbuffo, carte a plissé: con terzi estranei e non fidati considerare il proprio numero di telefono riservato e segreto come il PIN del Bancomat.
Valutare attentamente se rispondere a numeri sconosciuti, io quasi mai lo faccio. Oppure, se il numero é visibile, richiamo dopo aver reso invisibile il mio di numero, o controllo in Google che non sia un’utenza già segnalata come molesta. Se lo è aggiungo aggiungo il numero in Blacklist.

Almeno ridateci i bei tempi, quando il numero di casa era sull’elenco del telefono e il porco vicino padre di tre figlie femmine coetanee e assiduo frequentatore di messe domenicali sussurrava cose irripetibili quando sapeva che si era sole in casa.
O ridateci il periodo degli scherzi goliardici, cose innocue da ragazzi, intemperanze giovanili.

Trovo invece di una violenza insopportabile e assolutamente gratuita lo stalking commerciale che ha raggiunto livelli inenarrabili e, per l’appunto, non degni di un paese civile che in tale senso ha già, o dovrebbe (meglio) legiferare.
Invece la solita giungla italiana, il solito scaricabarile, gente anestetizzata e indifferente a tutto, certamente anche a ingiustizie e schifezze peggiori dello stalking di Sky o Vodafone.
Mi pregio di avere citato qui, ancora una volta, i Number One della molestia telefonica.
Qualcuno mi ha parlato, ma una breve ricerca in rete non ha fornito prove concrete, di un tentativo di class action fatto contro il marketing aggressivo, tentativo fallito per mancanza di adesioni/partecipazione.
Credo sia una leggenda metropolitana.

Poi a me rode il doppio, il triplo.
Oltre ad essere oggetto pluriquotidianamente di proposte ed offerte di cui non me ne può fregare di meno, da brava fessa ho anche speso sessanta euri per la tessera di una tale associazione di consumatori che cinque pizze con birra alla polisportiva dove gioco a tennis sarebbero state assai meglio spese.
Non dico che speravo mi potessero tutelare, proteggere, ma che almeno fossero in grado di dare precise attendibili indicazioni sul come muovermi.
Possibile che non abbiano mai ricevuto una richiesta del genere?
Oppure, se la scelta è di piazzarci una persona palesemente incompetente, il “mi informo e le faccio sapere” non si usa più?
Sí, perché il problema non è solo mio ma di almeno di cinquanta milioni di utenti telefonici, forse di più, tra linea fissa e mobile.

La vessazione é talmente frequente, sfrontata, incurante, aggressiva che io sono costretta a tenere il telefono di casa staccato.
Nei pochi istanti in cui lo ricollego succede almeno nel 50% dei casi che chiami qualcuno.

Per i naviganti smarriti, finiti qui per errore o per noia, per quelli che googlano stalking commerciale, magari meglio se con una robusta impalcatura giurisprudenziale, ma cosa si può fare?
E per coloro privi di conoscenze specifiche ma residenti all’estero: ma anche lì da voi è così?
Questionario a crocette subito, facile: SI o NO, paesi europei, paesi extraeuropei. Non lasciatemi nell’ignoranza.

Sono convinta che sia un fenomeno assolutamente tipicamente tutto italiano, una delle tante eccellenze da quarto mondo.

Non ce l’ho con i lavoratori dei call center, loro hanno tutta la mia solidarietà: basterebbe che il loro lavoro fosse quello di rispondere, svolgendo lo stesso o un simile lavoro, quando qualcuno li chiama perché ha davvero bisogno di aiuto, di assistenza, e invece finisce che l’attesa dell’operatore duri tre quarti d’ora, fino a che non cade la linea.
Dubito poi molto che la diretta iniziativa di stanamento e la tecnica da assedio di Stalingrado del potenziale cliente porti a chissà quali risultati.
Queste aziende io le boicotto per principio.

Non voglio nemmeno o ancora pensare cosa succederà con la fine delle tariffe di massima tutela decretata a partire dal 2018 per gas, luce, oltre ai sensibili o pazzeschi aumenti già sperimentati da quasi tutti quelli che ci sono passati.
Sarà il Festival dello Stalking.
Un futuro radioso ci attende.



Con aggiornamento, due ore e mezza scarse, cinque chiamate.



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Il secondo mese dell’anno

Arriva sempre, nella vita di un qualsiasi lombardoveneto stanziale, a maggior ragione se d’adozione, il momento in cui non ne può più dell’inverno, anche se più clemente della media.

Mettiamola così: il più delle volte ottobre, tecnicamente definito autunno, é ancora estate, o quasi, come una primavera in stadio avanzato in ritardo di cinque mesi, con la differenza che dopo non viene l’estate e che i colori tendono più al giallino aranciato.

Novembre può essere fresco o freddo, ma spesso si verifica il piacevole fenomeno dell’estate di San Martino, altrove meglio conosciuta come indian summer.
Si riappendono sciarpe e cappotti nell’illusione che il riscaldamento globale abbia prodotto l’unico effetto positivo dell’intera vicenda, la trasformazione della gelida Pianura in un posto finalmente adatto per l’insediamento umano, cioè con temperature mai inferiori ai quindici gradi (e non superiori ai ventotto, potendo scegliere).
Già dai primi del mese, subito dopo il Ponte dei Morti, comincia ad incombere lo spettro natalizio poi, con il cambio degli armadi, il fare avanti e indietro n* volte con la tintoria, le caldarroste e la gioia di rimettere gli stivali, novembre passa decisamente in fretta.

Dicembre é uno scivolo sdrucciolevole verso l’orgia del Natale e la fine dell’anno, si mangia in abbondanza e si aspettano le vacanze.
La formulazione di molti buoni propositi per l’anno nuovo – anche se menzogne pietose – aiuta a rendere il processo di transizione più scorrevole.

A Gennaio in genere si rientra dopo il sei rinvigoriti e ben pasciuti: é come essere picchiati da bambini dalla maestra il primo giorno di scuola ma si sfoggiano i maglioni nuovi e i guanti nuovi, e poi ci sono i saldi, che psicologicamente aiutano.
Già dalla metà del mese l’allungarsi delle giornate é chiaramente percepibile.
Ciao, ciao gennaio.

Febbraio è il mese più corto dell’anno, e a parte il Carnevale, i krapfen, i tortelli di mele, le chiacchiere o frappe non si intravedono altre ragioni per la sua esistenza.
Ah, sì, la semina, per gli amanti di orti e giardini.
Un po’ poco, infatti e fortunatamente è il mese più corto dell’anno.
In teoria, perché non finisce mai. MAI.
Passato il Carnevale è il momento in cui, ogni anno, anno dopo anno, l’Abitante medio della Grande Pianura é veramente stufo arcistufo dell’inverno: farebbe un patto con il demonio pur di beneficiare di un salto temporale di tre mesi e ritrovarsi a maggio, in maniche di camicia, i finestrini della macchina abbassati, parchi e giardini in fiore.

Lombardoveneta da sette generazioni, non chiedo tanto, poi la mia filosofia è quella leopardiana de Il Sabato del Villaggio: il pensiero della felicità che verrà è più tondo e portatore di gioia dell’evento atteso che non è mai all’altezza delle aspettative, essenza stessa della natura e della condizione umana.
Anche se poi volo basso: é solo attesa di mangiare fragole e ciliegie, e poi albicocche e pesche, meloni e angurie di stagione, di vivere con le finestre aperte, di potermi vestire a un solo strato, di vedere la pelle riacquistare un colore, una parvenza umana.

Però l’attesa con il sole e a quindici gradi sarebbe molto meglio che raschiare il ghiaccio dalla macchina la mattina come faccio da tre giorni di fila, e di continuare a pagare un botto di riscaldamento, per esempio.

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Enjoy the silence

Non è stata certo una coincidenza il fatto che abbia cominciato a redigere una specie di mia TOP 50 musicale negli stessi giorni in cui la RAI trasmetteva la n° edizione del festival di Sanremo.
Impresa che poi si è rivelata impossibile: la lista, che non è nemmeno completa, già conta più di cento brani solo andando a braccio ed è diventato un post, del 10 febbraio.
Se mi fossi messa a fare una ricerca seria a tavolino e a rintracciare i titoli di molti brani di autori del Tropicalismo brasiliano, dei Rolling Stones, di Prince, dei R.E.M, di David Bowie, dei Doors, di autori di world music dai nomi impossibili e di tanti altri credo che arriverei tranquillamente a duecento pezzi che considero per me essenziali, forse più.

Il fatto che quest’ultima edizione del Festivalaccio abbia anche avuto un grande successo di pubblico mi ha lasciato assai perplessa ma, per fortuna, io non faccio testo e se tanta gente lo guarda con interesse allora è giusto che continuino a programmarlo e a trasmetterlo, non si discute.
Però, anche per questo, io ho salutato la RAI, tre anni fa.

Ho sempre ascoltato tantissima musica, sin da decenne-dodicenne, iniziata a ciò e contaminata nei gusti prima vergini e poi ancora acerbi dalle scoperte musicali di un fratello di qualche anno più grande.
Ricordo i nomi che giravano e andavano per la maggiore: Patti Smith, David Bowie, Stevie Wonder, e poi gli Chic, e KC & the Sunshine Band.
Ho stampate nella memoria anche le copertine di quei dischi che venivano custoditi gelosamente in una camera dove non avevo formalmente libero accesso.

Verso quell’età, credo appunto verso i dieci anni, mi è arrivato in regalo per il mio compleanno un vero status symbol dell’epoca, un mangiadischi portatile della Grundig.
Arancione e con un bel manico di metallo, “mangiava” solo vinili 45 giri.
Ci suonavo “Pop Corn”, già stagionata ma ancora attuale in quegli anni, e mi rinchiudevo da sola in camera a ballare al suo ritmo ossessivo-psichedelico-allucinogeno rivelando già scarsissimo senso del ritmo e assenza totale di coordinamento degli arti.

Non mi spiego perché mi piacesse tanto.

Parallelamente e a pochi metri di distanza dalla mia abitazione nella mia giovane vita si dipanava un altro filone musicale: a casa di un’amica, anche lei con una sorella più grande coetanea di mio fratello, si andava alla grande di Lucio Battisti, di Elton John, di Beatles.
C’erano anche i Rubettes, ma credo quelli ce li filassimo solo noi con il loro tormentone “Sugar baby love”.
Poi, se devo dirla tutta, ci piacevano anche “Cuore Matto” di Little Tony e qualcosa di Mal, ma in misura minoritaria.
Mal, per inciso, all’epoca era anche belloccio e maturo, per questo piaceva molto di più alle amichette più grandi che cominciavano ad avere i primi pruriti della pubertà.
Un cugino fuori di cranio qualche volta suonava con la chitarra quelle che oggi si chiamerebbero cover, e si cantava anche, tutti insieme appassionatemente, in giardino d’estate, al chiuso d’inverno.

Dopo i quattordici è stata l’epoca delle radio libere, e c’era solo l’imbarazzo della scelta.
Come adesso, solo che allora erano la novità assoluta, nascevano stazioni radio in ogni garage e sottoscala della penisola, tante chiacchiere ma anche un sacco di musica da ascoltare liberamente e gratis, la grande abbuffata.
I fratelli più grandi ambivano a, o finivano a fare i DJ.
Da lì in avanti ho continuato per la mia strada in maniera più autonoma e sviluppato il mio gusto che definirei decisamente eclettico.
Ricordo di avere sbavato per una tale DD Jackson, per i Rockets, per Donna Summer, poi un certo Patrick Hernandez, i Gibson Brothers, Patrick Juvet.

I miei mentori e coloro che hanno contribuito maggiormente alla mia “formazione” musicale, che ne hanno indirizzato i gusti, che mi hanno rivelato perle sconosciute, sono sempre stati uomini.
Fidanzati, parenti, amici, colleghi, compagni di viaggio su un treno, ma sempre maschi.
Grazie a tutti.
Con le donne non ricordo di avere mai parlato di musica per più di cinque secondi di fila. Forse perchè nessuno ha o aveva la mia stessa passione, o più semplicemente gli stessi gusti.

Il fatto è che con la musica che non mi piace sono proprio intollerante, mi da fastidio come fosse rumore.
Mi dispiace dirlo ma tantissimi autori italiani mi fanno quell’effetto lì, sono cacofonici, non sopporto i testi, non sopporto la musica.
Tanto invece mi manda fuori di testa la musica che mi piace, perché poi quando piace gira nel sangue.

Non nascondo che moltissimi dei pezzi che ho elencato in nel post del 10 febbraio, quasi tutti, hanno accompagnato momenti per lo più felici della mia esistenza: non so fino a che punto questo consenta di essere oggettivi nelle proprie valutazioni.
Nella misura in cui si può essere oggettivi quando di parla di gusti personali sinceramente credo di esserlo stata, oggettiva, cioè di non essermi fatta troppo influenzare da vissuto e vicende personali.
Moltissime di quelle canzoni sono datate, chiunque sotto i quaranta potrebbe felicemente ignorarne l’esistenza.
Sbaglierebbe però, perché si perderebbe qualcosa.

Ad un certo punto, a tanti anni dalla mia iniziazione musicale, dopo tante stagioni di vinili graffiati, di cassette aggiustate con il nastro adesivo, di CD masterizzati, di MP3, di ritornelli canticchiati, di facce ebeti, estatiche, rapite godendomi l’attacco o il refrain di un pezzo, di goffi balli solo accennati, di note stonate e dita che tamburellano il volante ho chiuso bottega.
Ho praticamente smesso di ascoltare musica anche se, quando capita la mia musica, vado sempre su di giri.

Non compro/scarico nulla dal giugno 2011 e difficilmente al mio “repertorio dei piaciuti” aggiungo nuovi pezzi.
Potrebbe essere una fase passeggera, duratura, ma passeggera.
Oppure no, potrebbe essere diventato qualcosa di permanente, non sono in grado di dire.

C’entra sicuramente il fatto che il continuo ed insulso chiacchiericcio di sottofondo da ufficio mi ha oramai logorato i timpani.
Mi piacerebbe che imponessero, come in un convento o in un monastero, la consegna del silenzio, piuttosto di sentire obbligatoriamente tutte quelle stronzate che, parentesi, non hanno nulla a vedere con il lavoro.
Quanta pace, quanta produttività recuperata fuori e dentro il gabbio, uscirei ancora carica e non come una giumenta sfiancata.

Nonostante il silenzio non potrò mai rinnegare la mia passione per la musica che mi ha dato così tanto e lasciato solo bei ricordi, e che ora si riaccende di tanto in tanto per poco tempo, come la malaria, o come un primo amore mai del tutto dimenticato.
Magari un giorno l’amore ritornerà, prepotente.
Allora farò sicuramente l’abbonamento a Spotify.

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Le parole sono importanti

Nel corso dell’ultima settimana devo essere diventata ipersensibile all’uso che si fa delle parole, la loro scelta, il contesto nel quale vengono usate, le molte cose che lasciano trapelare di coloro che le pronunciano, il fatto che vadano parecchio oltre ciò che viene detto.
Me lo spiego con il riavvicinamento alla lettura di libri dopo diversi mesi di astinenza da carta stampata.

Sempre nel magico filone siamo una grande famiglia, volemose bene del “ciao, cara” di commessa di Kiko, mi è stata riportata una meravigliosa conversazione di lavoro infarcita di “amore”, “tesoro” e altre chicche del genere.
Da mega capo a giovane impiegata precaria, che tace ed acconsente.
Prevale qui la sfumatura paternalistica-gioviale del sono un capo simpatico e alla mano e tu, gallinella succosa, dovresti essere lusingata da questa confidenza che magnanimamente ti concedo.
Confidenza però non richiesta, e a senso unico.
In passato mi è capitata una cosa del genere, abbastanza comune in un certo tipo di realtà padronal-paesana, e subito riportata entro i binari di una più consona, opportuna e rispettosa comunicazione avendo io intercalato a mia volta nel rispondere con un “sí, amore”.
Silenzio di tomba, ed episodio mai più verificatosi.
Episodio capace persino di aver fatto riaffiorare gli ultimi riluttanti rigurgiti di femminismo sepolti oramai anni fa allorché, dopo lunga riflessione, sono giunta alla conclusione che, perlomeno nel mondo occidentale nel quale mi muovo e mi sento più a mio agio, i nemici delle donne non sono più gli uomini, ma più spesso le altre donne, o le stesse donne con tutti i loro fantasmi.

Per chiudere la settimana in bellezza giovane impiegata precaria terrorizzata mi racconta di essere stata accolta al suo arrivo in una certa assienda da un se sei stata tu a fare questo ti arriva una sberla.
La zietta raccoglie la preziosa testimonianza, per i posteri e a fini di cronaca.
Parole che si scolpiranno nella roccia, e non c’è automobile o borsa di Luí Uitton vera o tarocca che possa dare dignità e decenza a questi soggetti che riescono ad essere ugualmente volgari anche con la bocca chiusa.
La paura più grossa di frequentare certi posti é quella di finire così, con evidenti problemi di autocontrollo e di gestione delle frustrazioni personali, ed evidentemente non solo questo, molto di più.
Devo però, necessariamente, fermarmi qui.

Le parole sono importanti e, molto più di qualche genitale maschile o femminile usato a sproposito che personalmente mi è quasi del tutto indifferente tranne in pochissimi contesti, sono lo specchio dell’imbarbarimento e della grettezza dell’anima di chi certe cose non solo le pensa ma le dice, nell’indifferenza di tutti.

Un bel quadretto particolare che non stona affatto nel macroquadro generale, ci va a braccetto.

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Gioie della vita

Sentirsi salutare con un “ciao, Cara” da una commessa di Kiko che potrebbe essere mia figlia, e potrei avanzarne ancora, ma che non ho mai visto prima in vita mia, non ha prezzo.
Non so se sia stata iniziativa personale della figliola o indottrinamento dall’alto ma ho preso e portato a casa senza battere ciglio.

Nonostante la loro tattica sia assillante e un tantinello troppo aggressiva per i miei gusti mi faccio “fregare” sempre quando entro a curiosare in questi negozi, e non certo grazie alle abilità o alla persuasività delle commesse.
Il fatto è che esco anche contenta, specie quando ci sono gli sconti del 30%.

Prodotti che uso con grande parsimonia primo perché tendenzialmente preferisco usare prodotti naturali che sono mediamente più costosi e difficilmente o del tutto non reperibili dove vivo, secondo perché già dopo gli ‘entacinque vedo malissimo facce troppo imbellettate, terzo perché per truccarsi bene senza sembrare stuccata o un Trichoglossus Haematodus ci vuole talento, esperienza, buon gusto, e un’esatta comprensione e valutazione di quello che si è, in termini morfologici e di personalità.
E poi ci vuole anche tempo.
Però la matitona morbida per occhi color bruno ramato non vedo l’ora di provarla.

Comunque tutti quegli scatolini, quei colori, i prodotti sempre nuovi che si inventano nel settore cosmetico, evidentemente non solo da Kiko, mi danno la stessa gioia ed emozioni che provavo da piccola quando mi regalavano una scatola da 72 di pennarelli Carioca o di pastelli Giotto e una confezione di Das.

Penso che sarei più felice a lavorare in una profumeria che a fare il lavoro che faccio, sarei molto più interessata al prodotto.
Sarei anche, in ogni caso, la più slavata e tendente al neutro* di tutte le commesse, e non avrei le unghie finte.

*Post scriptum
Però rossetto rosso scarlatto sí!
Piace, piace, piace moltissimo.

Il Mio Rosso Perfetto non l’ho ancora trovato: purtroppo é matematico che esisterà solo di Mac o Chanel, e io trentacinque euri per un rossetto manco per.
La ricerca continua.

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Il mio dopo Festival

Stamattina in quei tre chilometri scarsi fatti in auto per portarla a fare una piccola riparazione su ben tre stazioni radio sulle quali mi sono sintonizzata per sfuggire a Radio Maria, qui onnipresente, e precisamente RMC, Radio Italia (che ci sta) e RTL si discuteva ancora di questo avvenimento di portata mondiale e che cambierà le nostre vite.

Mi sento più sicura adesso che l’ISIS é a trecento chilometri dalle coste della Sicilia. Avremo la colonna sonora.
Poi mi è capitata Radio Sportiva.
Poi ho spento tutto, sono arrivata a casa e ho seminato dei fiori: voglio continuare a sperare, da egoista senza cuore, che la cosa non ci riguardi e non ci riguarderà presto.

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Alternative al Festival, qualche spunto

Bring on the night, The Police
Enjoy the silence, Depeche Mode
Fantasy, Earth Wind and Fire
Reasons, Earth Wind and Fire
Cantaloop, US3
Dancing barefoot, Patti Smith
Spooky, Dusty Springfield
The look of love, Dusty Springfield
One, solo versione U2
Magnificent, U2
One tree hill, U2
Running to stand still, U2
In God’s country, U2
Scar tissue, Red Hot Chili Pepper
Californication, Red Hot Chili Pepper
Other side, Red Hot Chili Pepper
Under the bridge, Red Hot Chili Pepper
Heroes, David Bowie
An occasional dream, David Bowie
Starman, David Bowie
Diamante, Zucchero
Se telefonando, Mina
E ti vengo a cercare, Franco Battiato
Amandoti, Gianna Nannini
Quanno chiove, Pino Daniele
For an unfinished woman, Chet Baker Gerry Mulligan
My funny Valentine, Chet Baker Gerry Mulligan
Summertime, Louis Armstrong
It’s my life, Talk Talk
Such a shame, Talk Talk
Living in another world, Talk Talk
Holding back the years, Simply Red
Say you love me, Simply Red
Never never love, Simply Red
I’m on fire, Bruce Springsteen
Born to run, Bruce Springsteen
Adam raised a Cain, Bruce Springsteen
Badlands, Bruce Springsteen
Something in the night, Bruce Springsteen
Racing in the streets, Bruce Springsteen
Streets of fire, Bruce Springsteen
Be still my beating heart, Sting
The Lazarus heart, Sting
They dance alone (Cueca solo), Sting
Fragile, Sting
Fields of barley, Sting
Miss Sarajevo, versione George Michael
Time after time, Cindy Lauper
End of the night, The Doors
Riders on the storm, The Doors
Break on through (to the other side), The Doors
Mandela day, Simple Minds
Someone, somewhere in summer time, Simple Minds
New gold dream, Simple Minds
Wicked game, Chris Isaak
Nothing as it seems, Pearl Jam
Of the girl, Pearl Jam
Parting ways, Pearl Jam
Walking on the Chinese Wall, Philip Bailey
Hurricane, Bob Dylan
Duchess, Genesis
Behind the lines, Genesis
Nefertiti, Miles Davis
Long nights, Eddie Vedder
Guaranteed, Eddie Vedder
Song for you, Alexi Murdoch
All my days, Alexi Murdoch
Stairway to heaven, Led Zeppelin
I’ve been loving you too long, Otis Redding
The dock of the bay, Otis Redding
Do you know the way to San Jose, Dionne Warwick
I say a little prayer, Dionne Warwick
Walk on by, Dionne Warwick
Let’s get it on, Marvin Gaye
Sexual healing, Marvin Gaye
Mercy mercy me, Marvin Gaye
Juegos prohibidos, Andrés Segovia Torres
подмосковные вечера (canzone popolare russa)

очи чёрные (canzone popolare russa)

Калинка (canzone popolare russa)

Try me, I know we can make it, Donna Summer
MacArthur park, Donna Summer
Could it be magic, Donna Summer

Goodbye yellow brick road, Elton John
Crocodile rock, Elton John
Ray of light, Madonna
Água de beber, Antonio Carlos Jobim

One day I’ll fly away, Randy Crawford
Rainy night in Georgia, Randy Crawford
Rio de Janeiro blues, Randy Crawford
99, Toto
La femme d’argent, Air
Once in a lifetime, Talking Heads
Psycho killer, Talking Heads
Follow the sun, Xavier Rudd
Shine on you crazy diamond, Pink Floyd
Wish you were here, Pink Floyd
Comfortably numb, Pink Floyd
Eclipse, Pink Floyd
Us and them, Pink Floyd
Don’t stop the dance, Bryan Ferry
Avalon, Bryan Ferry
It hurts, Lotus Eaters
The sound of silence, Simon & Garfunkel
Scarborough Fair, Simon & Garfunkel
Diferente, Gotan Project
Triptico, Gotan Project
Época, Gotan Project
You can’t always get what you want, The Rolling Stones
Miss you, The Rolling Stones

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Orto e giardino

Tenere un giardino, e non fiorito e lussureggiante come lo vorrei in tutte e quattro le stagioni ma solo entro i limiti del decoro, è un lavoro fisicamente sfiancante.
La natura fa il suo corso, l’erba cresce e bisogna tagliarla, le erbacce crescono e bisogna estirparle, le piante pure e bisogna potarle, le foglie cadono e bisogna raccoglierle, col caldo bisogna innaffiare, poi ogni tanto concimare.

Animali ed animaletti di ogni tipo prosperano, infestano, si riproducono, muoiono: ci si deve convivere, rimuovere i loro cadaveri quando necessario, o lottare, come contro i ragni, le zanzare, le vespe, persino le api.
Le zanzare le accoppo, dalle vespe cerco di star lontana, dalle api idem.
La scorsa estate entravano in casa delle farfalle nere giganti che mi terrorizzavano, mai viste prima in tutta la mia vita.
Ove riuscivo le facevo uscire dalla finestra, ma non tutte, alcune le ho uccise.
Secondo il buddismo tutto questo mi si ritorcerà contro, secondo me tutto già pagato in anticipo.

La natura insomma ha un ciclo incessante e non da tregua se non per pochi giorni, poi il giro della giostra ricomincia.
Forse solo nei due tre mesi più freddi si vive come separati in casa, senza interferire, perciò mi godo le ultime settimane di riposo.

É però anche una gran bella soddisfazione: senza che facessi nulla per farle comparire nei giorni scorsi prima che nevicasse ho trovato piccole margherite, che carine, e tante altre primule.
Presto arriveranno anche i crocus dai mille colori.
Il cespuglio di rose rampicanti sta bene e continua la sua scalata inarrestabile verso il balcone che, verso maggio, immagino sarà una meraviglia.
Il calicantus fa dei fiori gialli profumatissimi, fiorisce sempre alla fine dell’inverno per un mese o poco più.

Si imparano anche tante cose, si accumula uno spiccio sapere: ad esempio che le foglie morte autunnali vanno raccolte quando sono secche, possibilmente non in un giorno ventoso, e non quando sono bagnate, perché si fatica il doppio e pesano il quadruplo, e quattro sacconi neri di foglie bagnate arrivano tranquillamente a una quintalata, una quintalata di roba che bisogna smaltire all’oasi ecologica.

L’orto per mia parziale autoproduzione ancora non ce l’ho, però oggi ho avuto delle soddisfazioni dal semenzaio artigianale (= contenitori vari di recupero) improvvisato nei giorni scorsi.
Rientrata dal lavoro ho fatto il mio solito giro di perlustrazione nel locale, luminoso e caldo, dove ho sistemato i miei semini in un soffice strato di terriccio, tenendo sempre umido ma ben drenato.

Meraviglia delle meraviglie, ho visto che moltissimi stanno germogliando, prevalentemente quelli di valeriana, una particolare specie olandese più resistente al freddo che ho scelto appositamente, mentre nel contenitore con un mix di fiori vari primaverili per bordure, balconi ed aiuole non si intravedono ancora particolari segni di vita.
Nelle prossime settimane ripeterò la stessa procedura con i semi di pomodoro, e magari nel frattempo mi approvvigiono anche di altre sementi come carote e zucchine.

E sono passati solo dieci giorni da quel dì: per essere il 31 di gennaio, l’ultimo dei giorni della Merla, il sole era insolitamente tiepido.
Avevo provato a rimuovere delle zolle nella zona idealmente deputata ad orto ma, con mia grande sorpresa, il terreno era ancora durissimo e compatto, impossibile da lavorare.
In una sottovaso dimenticato sul retro dell’acqua piovana aveva formato un sottile strato di ghiaccio. I due segnali andavano in un’unica direzione: nonostante il tepore era ancora prematuro fare giardinaggio all’aperto, e mettersi a fare l’ortolana.
Così é nata l’idea del semenzaio, fatto in casa e con una spesa davvero minima. Una bustina di semi non arriva infatti a due euro, ma a fare tanto, per contenitore si può riciclare quasi tutto e il terriccio per ottenere i primi germogli può non essere particolarmente profondo.

Essendo totalmente alla mia prima esperienza non so esattamente come mi comporterò con i nuovi nati, mi sembra faccia ancora troppo freddo per piantarli all’aperto, e il suolo è ricoperto di neve che di certo non mi metto a spalare.
I virgulti di valeriana comunque sono stati una piccola soddisfazione, mi hanno scaldato il cuore e spero che verso fine mese o poco più diventeranno anche la mia cena, o una parte di essa.
Nel frattempo sto valutando se, tutto sommato, non convenga fare crescere tutto, a parte i fiori, in grandi vasi rettangolari dei quali dispongo già, piuttosto che nella terra libera, sembra molto più comodo e meno faticoso da gestire per “raccolti” di piccola entità.

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Mavaffa

Sono appena tornata da un funerale.
Un funerale, per quanto l’estinto possa esserci stato in vita anche abbastanza indifferente, non è mai di per se cosa piacevole.
Nella migliore delle ipotesi, anche solo per associazione mentale, un pensierino fugace viene sempre rivolto al fatto che prima o poi verrà anche il nostro turno, o quello delle persone che amiamo, e la cosa é abbastanza angosciante.
Anche per quelli per i quali su questo pianeta non è sempre rose e fiori e che non se la starnazzano dalla mattina alla sera come oche giulive.
A me non è la meta ultima che fa paura, infatti io ci vedo solo riposo e finalmente pace, é il momento della transizione, del passaggio, il non sapere se magari avverrà nel momento migliore della mia vita, e in che modo, soprattutto in che modo.

In più soffro di claustrofobia, non una cosa che mi sono inventata per distinguermi e darmi un’etichetta, proprio una cosa seria e parecchio limitante nella vita reale di tutti i giorni.
Per cercare di venirne a capo ho sborsato tanti di quei sesterzi che se me li fossi tenuti in saccoccia adesso avrei almeno una macchina pluri-accessoriata nuova fiammante, o dieci Birkin di Hermes, o avrei circumnavigato il globo due o tre volte quindi, personalmente, per varie questioni non ultime quelle ecologiche io so che non vorrò mai finire bullonata in una cassa di legno a marcire.
Non mi aiuta quindi sapere che lei, adesso, é lí, in un posto freddo e buio lontana da tutti i suoi cari, umani e animali, e dalle tante cose belle che possedeva e che amava.
Preferirei avere in mano un mucchietto di ceneri, la sentirei più vicina.

Se poi l’omelia del parroco, in Italia anche atei e miscredenti vengono salutati così, non riesce a recare alcun conforto, anzi non ci si riesce a capacitare di tutti quei minacciosi “dovremo rendere conto a Dio” il funerale può diventare un’esperienza altamente destabilizzante ed emotivamente molto impegnativa, magari a scoppio prolungato.
Ed è questo il motivo per cui, pur avendo retto quasi algidamente in presenza di terzi parenti ed estranei, al rientro in macchina ho rotto le dighe e ora sembro un panda gigante con il mascara colato giù per le guance.

È ancor più doloroso se la persona che è venuta a mancare rappresentava uno degli ultimi brandelli della famiglia, e in più era pure uno dei soggetti migliori di tutto il parentame capitato in sorte: quello con il quale si è interagito maggiormente anche per similitudini caratteriali e di gusti, perché è vero che il sangue non è acqua.
Persino, fatta salva la differenza d’età, noi siamo, o meglio eravamo, due gocce d’acqua.

Allora rivedi tutta, ma proprio tutta la tua vita come in un filmino in cinemascope fatto scorrere a ritroso nel tempo, specie se il funerale avviene in un piccolo paesino tra i monti che ti ha visto diventare più grande e più alta un’estate dopo l’altra, un fine settimana dopo l’altro.
É un buco di paese di trecento anime dove tutti, ma dico proprio tutti quelli rimasti in vita del buco di paese e di tutto il circondario si ricordano di te e di tuo fratello da infanti, poi da piccoli, e poi da ragazzini.
Anche se non ti vedono da venti o trent’anni ti chiamano ancora per nome, e non è un nome né comune ne facile, e ricordano genealogie, eventi e cronologia della tua vita famigliare, manco fossi stata una celebrità che li ha onorati della sua presenza.
Perché è questo il bello dei posti piccoli, che si lascia una traccia senza essere nessuno e senza fare niente di speciale.

Quindi torni a casa distrutta pensando che vorresti prenderti un altro giorno di permesso dal lavoro per rimettere a posto l’animo, sapendo in realtà benissimo che il ricordo di questa persona ti assillerà per lungo tempo ancora.
Soprattutto il rimpianto di non essersela goduta abbastanza, l’aver fatto sì che delle incomprensioni, delle cose mai dette, mai spiegate e mai volute affrontare vi abbiano allontanate negli ultimi anni, continuando a rimandare il chiarimento all’infinito.
Così il redde rationem non è mai arrivato.
Adesso è troppo tardi per rimediare e per dire quello che avresti voluto dire, per porre le domande che ti bruciavano sulla punta della lingua, troppo tardi per una conciliazione, troppo tardi per chiedere perché.
Ti porterai addosso questo rimorso e senso di colpa per sempre, e sono un fardello molto pesante.

Poi rientri a casa mesta e mogia, senti ronzare il telefono nella borsa: in ufficio sanno che sei stata via per un funerale.
Già la mattina una collega ti ha wozzappata per mezz’ora per chiedere cosa fare, cosa dire, per chiedere consiglio su cose di quasi quotidiana amministrazione e tu, pazientemente ma con la testa già altrove, hai risposto.

Questa sera l’ennesimo suo wozzap ti notifica e riassume gli eventi della giornata lavorativa.
Casomai avessi avuto modo e tempo di pensarci.
L’hai mandata educatamente a cagare e no, non senti alcun rimorso.

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